La modesta entità del fatto contestato non esclude la giusta causa di licenziamento
La sentenza n. 1476/2024 della Suprema Corte di Cassazione si esprime riguardo al caso di un cuoco licenziato per avere portato via, in una borsa di plastica e senza alcuna autorizzazione, all’esterno del locale dove svolgeva il proprio turno di lavoro, generi alimentari di proprietà della datrice di lavoro, di cui si era appropriato illegittimamente e in modo reiterato per oltre un mese come accertato dai Carabinieri.
In merito, la Suprema Corte ricorda il fondamentale principio secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto“, è una nozione che la legge configura con una disposizione di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa.
Nella fattispecie, l’inadempimento del lavoratore è importante e tale da costituire giusta causa di recesso, in quanto la condotta contestata, quale fatto costituente reato, sebbene riguardante cibi cotti e deperibili, manifesta un significativo disvalore sociale e si pone in chiaro ed evidente contrasto con gli standard conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale che non consentono la sottrazione di beni aziendali attraverso comportamenti reiterati e con una sistematica predisposizione di una organizzazione per il loro trasporto, sebbene vi possa essere stata una apparente tolleranza da parte del datore di lavoro.
Dunque, in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro.